Quale persona scegliere per una storia? Prima o terza?

Se vi siete mai trovati con un’idea in testa e il foglio bianco davanti a voi – e immagino di sì, visto che siete qui -, vi sarete chiesti in quale persona scrivere il vostro racconto. Prima o terza? Al di là dei tempi verbali, qual è la differenza tra le due? Qual è la più adatta?

In questo articolo approfondiremo i motivi che portano alla scelta dell’una o dell’altra persona, per poi esaminare quale sia il modo corretto di utilizzare ciascuna delle due.

SCEGLIERE TRA PRIMA E TERZA

Molte volte è una scelta istintiva, ma spesso è possibile fare delle valutazioni in base al genere della storia, a chi sono i protagonisti e a come volete impostare la trama.
Vediamo nel dettaglio cosa significa.
Innanzitutto, il genere. Ci sono generi che possono essere raccontati con semplicità con entrambe le persone, altri che invece hanno una predilezione per l’uno o per l’altro. Per esempio, il genere introspettivo si sposa molto bene con la prima persona, perché permette di scavare dentro l’animo del personaggio e di raccontare la realtà secondo la sua prospettiva e la sua esperienza. Tendenzialmente, questo genere di storie privilegiano l’esplorazione dei sentimenti ed è quindi lecito che la storia sia raccontata da un’unica prospettiva, senza che l’esperienza di lettura ne risenta. Una storia di genere epico o storico, che narra di battaglie, schieramenti e piani politici, sicuramente giova di una narrazione in terza persona. In questo modo, avete la possibilità di spostarvi facilmente da una situazione all’altra, da un personaggio all’altro, di raccontare eventi che non necessariamente riguardano un solo personaggio. Inoltre, in terza persona, ha un effetto più gradevole anche il narratore onnisciente; non che in prima non si possa utilizzare, ma spezza un po’ quella sensazione di vivere l’avventura col personaggio istante per istante.
In altre parole, la prima persona è da preferirsi se volete seguire un solo personaggio e scavare nelle sue emozioni; utilizzate invece la terza se preferite concentrarvi sulle azioni e regalare al lettore una panoramica più ampia della vostra storia.
C’è poi da considerare quanti personaggi avete intenzione di rendere protagonisti: se la vostra è una storia corale, la terza persona è senz’altro da preferirsi, proprio perché, come dicevo, potete raccontare momenti diversi in prospettive diverse. Se vi piace sperimentare, come alla sottoscritta, potete provare a scrivere una storia corale in prima persona, dedicando ogni capitolo a un POV diverso. Nella maniera più assoluta, evitate di mettere più POV in prima persona nello stesso capitolo: i lettori non vi perdoneranno quell’odioso “POV Tizio” che si trova talvolta in certe storie.

Una volta decisa la persona da utilizzare all’interno della nostra storia, dobbiamo anche rendergli onore. Che cosa vuol dire? Significa che dobbiamo utilizzare la persona scelta per lo scopo per cui è nata.

Qui sotto trovate un approfondimento sulla prima e sulla terza persona.

LA PRIMA PERSONA

La prima persona, come abbiamo visto, si utilizza per seguire da vicino un personaggio e raccontare il mondo che lo circonda attraverso i suoi occhi. È quindi importante che ogni descrizione sia filtrata attraverso il personaggio, che quindi potrà esprimere pensieri su quanto gli accade e potrà raccontarci se una scena gli rievoca certi ricordi, e scendere nello specifico, se lo vorrà.
Quando utilizziamo la prima persona, quindi, dobbiamo far attenzione a non scrivere scene asettiche. Fare una controprova è piuttosto semplice. Prendete la scena che avete scritto e fingete che il POV appartenga a un altro personaggio. La scena continua a funzionare o sembra inappropriata? Se rientrate nella prima casistica, allora siete incappati nell’errore di utilizzare la prima persona come se fosse la terza.

A questo proposito, vi porto – ahimè – un esempio tratto direttamente dalla storia che sto scrivendo. La storia è scritta in prima persona, dal punto di vista di un poliziotto sotto pressione, che si sta dirigendo verso casa di una persona informata sui fatti. Non dovrà fare un vero e proprio interrogatorio, ma ogni momento gli sembra di sentire i rimproveri del suo capo.
Mentre cammina, incappa nel mercato del pesce di Chinatown; questa è la prima versione della descrizione del luogo:

Superata l’insegna, la prima cosa che mi colpì fu l’odore di pesce. Annusai l’aria per seguirne la scia, che mi portò a voltarmi verso un mercatino ambulante, gestito da cinesi, ovviamente, e che vendeva specialità di ogni tipo. Per poco più di due dollari potevi portarti a casa un’ostrica e con quattro potevi gustarti un granchio.
Osservai una conversazione tra il gestore del banco del pesce e un suo cliente. Il primo mugugnò qualcosa in cinese e l’altro cominciò a indicargli i gamberetti, gesticolarono un po’ per contrattare il prezzo, fino a che il cliente non riuscii a strappargli una manciata di gamberetti freschi per tre dollari soltanto.

Questo è quanto. È la descrizione del mercato del pesce dal punto di vista di Alan, il mio protagonista. Sì, forse può anche essere carina, ma è anonima. Questa non è la descrizione del mercato POV Alan, questa è la descrizione del mercato e basta. Dove sono i dettagli che mi fanno capire che questa prospettiva può essere solo e soltanto sua? Semplice: non ci sono. Questo pezzo potrebbe essere convertito in terza persona o riferito a un altro personaggio, senza che io debba cambiare una parola.
Ecco, questo è male. Quindi ho capito che c’era bisogno di arricchire la descrizione, di inserire dettagli che potevano appartenere solo ad Alan.
Così, spremendomi un po’, mi è venuto in mente che ha passato la sua infanzia a Brighton, una cittadina sul mare. Mi sono detta, dunque, che sicuramente avrà passato buona parte della sua fanciullezza sul molo o sulla spiaggia, in mezzo a casse di pesci.
Per cui, un pensiero ha tirato l’altro e ho riscritto buona parte della descrizione. Il risultato finale è stato il seguente:

Superata l’insegna, la prima cosa che mi colpì fu l’odore di pesce. Annusai l’aria per seguirne la scia, che mi portò a voltarmi verso un mercatino ambulante, gestito da cinesi, ovviamente, e che vendeva specialità di ogni tipo. Per poco più di due dollari potevi portarti a casa un’ostrica e con quattro potevi gustarti un granchio.
A Brighton il pesce non era certo una novità. Avevo circa quattro anni quando i nonni decisero di portarmi con loro per la prima volta sul molo, a fare scorpacciate di pesce per il pranzo del fine settimana. C’erano uomini che scaricavano numerose casse di merluzzi e sgombri, che emanavano un odore salino talmente forte che, ingenuamente, mi coprii il naso con la maglietta. Quegli uomini mi sembravano giganti e quelle casse contavano una tale quantità di pesci che non riuscivo neanche a quantificarla. Anche dopo che il nonno mi ebbe tirato per la mano un paio di volte, io rimasi lì, col naso tappato, ad ascoltare quello che allora mi parve un linguaggio in codice tra marinai e addetti allo scarico merci. Dovette intervenire la nonna, a propormi gli anelli di totani, prima che riuscissi a distogliere lo sguardo da quell’ammasso di carcasse, che sembravano giganti, rispetto al bambino che ero.
Sulla baia c’ero cresciuto e il mare aveva fatto da sottofondo a più di un mio tormento. Mi aveva visto bambino e adolescente, aveva ascoltato le litigate per un giocattolo e le prime storie andate male; mi aveva fatto provare il desiderio di scappare, quando quella baia, quel molo, e quelle persone, che conoscevo troppo bene, stavano cominciando a starmi strette. Avevo lasciato quella spiaggia e la sua tranquillità, perché avevo preferito catapultarmi in una realtà caotica e frenetica, così diversa da quello in cui ero cresciuto. Lasciandomi la baia alle spalle, ci avevo lasciato anche un po’ della mia gioventù.
A Manhattan avevo imparato cos’erano le responsabilità. Non c’era stato più spazio per il ragazzo che ero, ma ne andavo fiero. Quando però mi ricordai cosa ci facevo lì, in Chinatown, e misi da parte i ricordi dei miei nonni, mi sentii cogliere da una strana sensazione, accompagnata dal desiderio di non essermene mai andato.
Osservai una conversazione tra il gestore del banco del pesce e un suo cliente. Il primo mugugnò qualcosa in cinese e l’altro cominciò a indicargli i gamberetti, gesticolarono un po’ per contrattare il prezzo, fino a che il cliente non riuscii a strappargli una manciata di gamberetti freschi per tre dollari soltanto.
A Brighton non c’erano mai state contrattazioni. Si sceglieva e si pagava, e poi portavi a casa quello che credevi di aver conquistato. Se poi avevi fatto un buon affare, potevi saperlo solo tu e colui che ti eri lasciato dietro.

Premettendo che ancora ho molto da imparare sulle descrizioni, credo che sia piuttosto oggettivo che questa descrizione sia meglio dell’altra. Questa è la descrizione di Alan, perché richiama alla mente ricordi che possono essere solo suoi, le sue impressioni e quello che ha colpito lui e nessun altro. Alla fine, il mercato del pesce è sempre quello, ma si porta dietro a un pezzo di cuore del nostro Alan.

Ora, ovviamente non è necessario che ogni descrizione propini al lettore vita, morte e miracoli del vostro personaggio, ma un tocco personale ci va sempre. Le lasagne che ricordano la nonna, la febbre che ci fa tornare bambini, sotto le coperte con la mamma a coccolarci la testa sul divano e via discorrendo.
Ricordate: le descrizioni in prima persona devono appartenere al vostro personaggio, a lui e nessun altro. Se riuscite ad appiopparla a un altro con troppa facilità, forse è il caso di rivederla.

LA TERZA PERSONA

Come dicevamo, la terza persona permette una narrazione più asettica, meno legata al personaggio. Quando si scrive in terza persona, si immagina sempre che ci sia un narratore esterno a raccontare le vicende, che può entrare e uscire dalla testa dei personaggi come e quando vuole, che può viaggiare nello spazio e nel tempo.

Che il narratore sia in realtà un TARDIS?
Che il narratore sia in realtà un TARDIS?

La terza persona permette una libertà che non ha eguali, ma, secondo me, è bene utilizzarla entro certi limiti.
In una delle mie storie, ho utilizzato la terza persona e un narratore che riportava i pensieri ora di un personaggio, ora di un altro. Esprimevo i pensieri del primo, che poi diceva qualcosa, per poi balzare nella testa del secondo, per descrivere le emozioni che quella frase aveva suscitato in lui.
Il risultato è stato un vero e proprio guazzabuglio di pensieri. La mia beta mi diceva spesso che, talvolta, non riusciva a capire di chi fossero i pensieri. Questo era senz’altro colpa mia, ma credo che, utilizzando la terza persona in questo modo, ci sia un alto rischio di tirar fuori delle scene piuttosto confuse. Quando, al contrario, ho scritto un capitolo che raccontava la scena dal punto di vista di un solo personaggio, la narrazione ne ha giovato e molti lettori hanno preferito questa modalità a quella che avevo usato fino a quel momento.
Se state scrivendo in terza persona e sentite il bisogno impellente di scavare nei pensieri dei personaggi, valutate se passare alla prima. Se poi la storia è raccontata dalla prospettiva di un solo personaggio, allora potrebbe addirittura essere una buona idea.

Un altro aspetto da considerare sono i commenti che vi potete permettere come narratore. Innumerevoli volte mi sono ritrovata a leggere e betare storie che contenevano frasi come questa:

Tizia era mora, alta ed era un’oca, e infatti leggeva libri così brutti da far ribrezzo anche ai romanzi di serie Z.

Questo è il genere di frasi che in terza persona non vi potete permettere. Perché? Perché esprimono un giudizio. Il vostro compito è essere narratori esterni e imparziali, e vorrei sottolineare con forza questo concetto. Se scrivete in prima, potete dare tutti i giudizi che volete: in fondo, rispecchiano ciò che pensa il personaggio di cui fate da megafono. In terza persona, però, non potete farlo, perché come narratori non potete prendere una posizione, a meno che non intendiate esplicitamente intromettervi nella storia e instaurare un dialogo con il lettore.
Se Tizia sia un’oca – un fatto soggettivo – e se il libro che legge sia così brutto, non siete voi a doverlo stabilire, ma è unicamente compito del lettore. Potete riportare una battuta che la fa apparire oca, potete dire che il libro aveva venduto meno di quello che aveva vinto il premio “Libro più brutto dell’anno” e sarà quindi il lettore poi a definirlo “libro così brutto da far ribrezzo ai romanzi di serie Z”. Ma voi, come narratori, non potete e non dovete dirlo: dovete attenervi ai fatti oggettivi. Infatti, dire che è mora, alta e che leggeva libri è qualcosa di certamente più oggettivo (anche se potremmo stare a discutere sul significato di “alta”) e nessuno vi dirà che avete espresso un giudizio al posto del lettore; lo farà solo se vi permettete di chiamare “oca” la nostra Tizia al posto suo.

Se come autore vi piace esprimere un giudizio, che può rispecchiare il vostro pensiero o quello del vostro personaggio, allora è il caso, anche qui, di valutare il passaggio alla prima persona.

CONCLUSIONI

Scegliere non è facile. A volte capita di cominciare la storia in un modo e di accorgersi, a metà dell’opera, che l’utilizzo di un’altra persona sarebbe stata una scelta più oculata. Ebbene, in questo caso, non fatevi problemi: credo che sia assolutamente lecito riadattare quanto fatto per portarlo nella persona desiderata. Nel fare questa operazione, però, assicuratevi di non cadere nelle trappole che ciascuna di esse contiene.

Una nota sulla seconda persona: non l’ho citata perché è tendenzialmente meno utilizzata, ma io la trovo molto affascinante. Ci si può rivolgere a un “tu” lettore o a un personaggio della storia, ma è una scelta stilistica molto particolare, perché, specie nel secondo caso, è come se rappresentasse un dialogo unicamente tra i due (o più) personaggi coinvolti nella narrazione. Una cosa un po’ voyeuristica, insomma. Sembra quasi di spiare una conversazione privata, ecco! Di certo, però, è molto intensa. È come se il narratore tirasse fuori tutto quello che ha dentro, senza preoccuparsi del lettore o di altre persone che lo circondano. Affascinante, sì.

Spero che questo articolo vi abbia schiarito un po’ le idee. Se avete proposte di miglioramento, esperienze e quant’altro che vorreste raccontare, lasciate pure un commento qui sotto.

E, se questo articolo vi è piaciuto, condividete! Grazie!

Alla prossima

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