Le trappole della scrittura: gli aggettivi

Ah, gli aggettivi. Piccole, innocue parole che ci permettono di dare una sfaccettatura al concetto che stiamo esprimendo, senza dover ricorrere a lunghi giri di parole. Un antidoto, insomma, contro il veleno della prolissità. Ma sarà davvero così?

Nel corso della mia misera carriera da scribacchina, mi sono accorta che l’altra faccia degli aggettivi può essere micidiale. Esistono casi in cui, infatti, l’aggettivo altro non è che espressione dell’insicurezza dell’autore e di uno stile non del tutto maturo.

Vedo di spiegarmi meglio. Nel mio lavoro di revisore, sono incappata in una frase come questa:

“Il ragazzo li accompagnò verso la sua umile dimora, composta da un’unica stanza dove la sua famiglia mangiava e dormiva. Indicò loro quel divano piccolo e stretto e li invitò ad accomodarsi. Dalla cucina, si sentiva il buon profumo di biscotti appena sfornati e il dolce suono di risate spensierate [di due ragazze]”.

Il testo, di per sé, è corretto. Cosa c’è, quindi, che non va?

Innanzitutto, la storia è narrata in terza persona e, se si sceglie di utilizzare un narratore onnisciente ed esterno, che quindi può “saltare” da un personaggio all’altro, è sempre bene evitare di intromettersi. Nel momento in cui utilizziamo un aggettivo come in questo caso (per esempio, il “dolce” suono delle risate), il narratore sta esprimendo un giudizio. Chi ci dice che anche per il personaggio che stiamo descrivendo quelle risa siano dolci? Appena più tollerabile nel caso di narratore interno, perché filtra la realtà con gli occhi di un singolo personaggio, benché rimanga la terza persona. Ovviamente, nel caso della prima persona, il problema non sussiste.

Ma torniamo a noi. Abbiamo capito, quindi, che una sequela di aggettivi di questo genere sono nient’altro che un giudizio dell’autore. Perché abusarne, dunque? Per quel che mi riguarda, credo sia solo insicurezza.

“Si capirà che il profumo di biscotti appena sfornati è buono? Forse è meglio scriverlo”.

E invece no. Già la parola “profumo”, di per sé, indica un buon odore; poi, i biscotti appena sfornati, a meno che non siano bruciati, emanano tendenzialmente un buon odorino.

Analizziamo ancora il “dolce” suono delle risate spensierate. Forse lo sono per l’autore, ma per il personaggio possiamo dire lo stesso? Tendenzialmente la risposta è sì, nel senso che qualunque persona con un’infanzia normale potrà ritenere le risate spensierate un qualcosa di piacevole da ascoltare. Per qualche personaggio, però, potrebbe non essere così: potrebbe, al contrario, associare le risa a un ricordo negativo. Non azzardiamoci, però, a sostituire “dolce” con “terribile” e aggettivi affini; proviamo, invece, a regalare al lettore un’immagine concreta, se questo può essere d’aiuto nella caratterizzazione del suo personaggio.
Per esempio:

“Dalla cucina, si sentiva il profumo di biscotti appena sfornati e il suono di risate spensierate. Le due ragazze sembravano davvero felici, come i due fratellini che passavano sotto la sua finestra quando era bambino, mentre lui, dall’altra stanza, cercava di non ascoltare le litigate dei suoi genitori, i piatti gettati a terra, i pugni sbattuti sul tavolo.”

E voilà. I vantaggi di regalare un’immagine al lettore sono principalmente tre: il primo è che non ci fate la figura dell’autore frettoloso e insicuro; il secondo è che regalerete al lettore una scena vera e vivida, che può immaginare senza difficoltà; il terzo è che avrete delineato una parte del vostro personaggio senza intromettervi nella storia.

A questo proposito, non abbiate paura che il lettore si faccia la sua idea, mentre legge la vostra storia. Lasciate che sia lui a decidere se il vostro personaggio è “bello”, “simpatico”, “scontroso” e via discorrendo; liberatevi dell’impellente bisogno di imboccarlo, di dire al posto suo com’è il tal personaggio. Se il vostro protagonista fa girare tutte le ragazze per strada, se pronuncia battute che fanno ridere anche voi o, al contrario, se vi fa innervosire con i suoi modi, il lettore sarà in grado di esprimere un giudizio senza che voi lo aiutiate.

Abbiate fiducia in lui e liberatevi delle vostre insicurezze!

Finirò questa trattazione esaminando anche gli altri due aggettivi sottolineati. Che la dimora sia umile, mi pare abbastanza ovvio: un’unica stanza per mangiare e dormire dove vive un’intera famiglia… Non la definirei una residenza per ricchi. Di conseguenza, è assai probabile che sul divano entri a malapena una persona, che due ci stiano strette strette, a contatto, e che la seduta non sia adeguata per personaggi di grossa stazza o statura.

Ovviamente, non è detto che ogni scena serva per mostrare il personaggio o il suo passato: avreste potuto benissimo parlare del profumo e delle risa senza scomodare infanzie traumatiche, passando direttamente alla scena successiva.

Ogni volta che metterete un aggettivo, quindi, fatevi questa domanda: posso liberarmene? Sto cercando di imboccare il lettore? Come posso fare per trasmettere lo stesso concetto senza intervenire con un giudizio?

Sbizzarritevi con le immagini concrete. Sia mai che le urla e i piatti rotti non vi ispirino qualcosa  😉

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