Le trappole della scrittura: i personaggi iperbolici

Personaggi ricercati dalla mafia? Adolescenti dotati di immensi poteri di cui non erano a conoscenza? La sfigata di turno che diventa Miss Italia?

Quante volte abbiamo trovato personaggi che sembravano troppo perfetti, troppo fortunati, troppo strampalati – o semplicemente “troppo”? Come possiamo fare per accorgercene e, soprattutto, qual è il limite che non dobbiamo oltrepassare?

Al di là del fatto che gli esempi riportati si ispirano a noti cliché, l’altro fattore che balza all’occhio è il fatto che questi personaggi sono dotati di caratteristiche cosiddette iperboliche, cioè sproporzionate rispetto al contesto in cui sono inseriti.

Va detto, infatti, che di per sé non sono personaggi negativi, né mal costruiti; lo diventano nel momento in cui si pongono al di sopra di tutti gli altri personaggi e dell’intreccio, o quando hanno caratteristiche che poco hanno a che vedere con la storia che stiamo scrivendo.

Nel mio lavoro di revisore, infatti, mi è capitata tra le mani una storia dove il protagonista si trova sotto protezione dello Stato, ma la cui vicenda ruota solo intorno alla storia d’amore che vive con una ragazza, una storia fatta di segreti e bugie, una storia che lo costringerà a scegliere quale vita vivere.

Di per sé la storia è anche interessante, ma c’è un problema.

          1.   LE ASPETTATIVE DEL LETTORE

Il primo commento che mi è uscito spontaneo, una volta terminata la lettura della trama, è stato: “Ma perché il personaggio è inserito in un programma di protezione? Da chi sta scappando? Cosa ha visto?”.
Il problema è proprio questo: una trama del genere crea aspettativa nel lettore, che quindi pensa di scoprire qualcosa di più sul motivo per cui il personaggio ha necessità di nascondersi. Invece, questo non accade: la storia è prettamente romantica e non si fa alcun accenno al reato di cui il ragazzo è stato testimone. La conseguenza è che, arrivati alla fine, si ha la sensazione che l’autore abbia voluto colpire il lettore con un personaggio strampalato, in modo da impressionarlo, ma che si risolve con un nulla di fatto.
Questa regola, comunque, vale anche in generale: nel momento in cui inseriamo un elemento all’interno della storia, questo deve avere un’utilità, anche piccola, e deve essere utile e proporzionato alla storia che stiamo scrivendo.

          2.   LA REALE NECESSITÀ DI UN PERSONAGGIO IPERBOLICO

Una volta evidenziato questo problema, mi sono chiesta la motivazione che ha spinto l’autore a creare un personaggio di questo genere. Scavando a fondo, ho capito che l’unica necessità era quella di avere un ragazzo sfuggente, molto riservato sulla sua vita e fuori da qualunque attività sociale, reale o digitale – difatti, il ragazzo non è iscritto a nessun social network e limita l’uso del cellulare.
Alla luce di questo, dunque, notiamo che l’idea del programma di protezione dello Stato, nel contesto della storia in esame, è eccessiva e richiede di essere ridimensionata.
Ovviamente, se la storia fosse stata ricca di azione e, perché no, di parti investigative, l’idea di questo personaggio sarebbe stata più che valida.

          3.   LA SOLUZIONE

Vediamo quindi come possiamo rimediare a questa situazione.
In realtà, è piuttosto semplice: quante volte abbiamo sentito dire di persone che, con la scusa del lavoro, conducevano una vera e propria doppia vita? Le esigenze, se così possiamo chiamarle, sono le stesse: lasciare poche tracce, stare lontani dai social network, essere sfuggenti sulla propria vita.
Dunque, per una storia romantica, perché non fare semplicemente che il nostro personaggio vive in un’altra città per lavoro?
È semplice, credibile e proporzionato all’intera vicenda.

Problema risolto!

E voi siete mai incappati in personaggi iperbolici, magari frutto proprio della vostra penna?  😉

Fatemi sapere e alla prossima!

Le trappole della scrittura: gli aggettivi

Ah, gli aggettivi. Piccole, innocue parole che ci permettono di dare una sfaccettatura al concetto che stiamo esprimendo, senza dover ricorrere a lunghi giri di parole. Un antidoto, insomma, contro il veleno della prolissità. Ma sarà davvero così?

Nel corso della mia misera carriera da scribacchina, mi sono accorta che l’altra faccia degli aggettivi può essere micidiale. Esistono casi in cui, infatti, l’aggettivo altro non è che espressione dell’insicurezza dell’autore e di uno stile non del tutto maturo.

Vedo di spiegarmi meglio. Nel mio lavoro di revisore, sono incappata in una frase come questa:

“Il ragazzo li accompagnò verso la sua umile dimora, composta da un’unica stanza dove la sua famiglia mangiava e dormiva. Indicò loro quel divano piccolo e stretto e li invitò ad accomodarsi. Dalla cucina, si sentiva il buon profumo di biscotti appena sfornati e il dolce suono di risate spensierate [di due ragazze]”.

Il testo, di per sé, è corretto. Cosa c’è, quindi, che non va?

Innanzitutto, la storia è narrata in terza persona e, se si sceglie di utilizzare un narratore onnisciente ed esterno, che quindi può “saltare” da un personaggio all’altro, è sempre bene evitare di intromettersi. Nel momento in cui utilizziamo un aggettivo come in questo caso (per esempio, il “dolce” suono delle risate), il narratore sta esprimendo un giudizio. Chi ci dice che anche per il personaggio che stiamo descrivendo quelle risa siano dolci? Appena più tollerabile nel caso di narratore interno, perché filtra la realtà con gli occhi di un singolo personaggio, benché rimanga la terza persona. Ovviamente, nel caso della prima persona, il problema non sussiste.

Ma torniamo a noi. Abbiamo capito, quindi, che una sequela di aggettivi di questo genere sono nient’altro che un giudizio dell’autore. Perché abusarne, dunque? Per quel che mi riguarda, credo sia solo insicurezza.

“Si capirà che il profumo di biscotti appena sfornati è buono? Forse è meglio scriverlo”.

E invece no. Già la parola “profumo”, di per sé, indica un buon odore; poi, i biscotti appena sfornati, a meno che non siano bruciati, emanano tendenzialmente un buon odorino.

Analizziamo ancora il “dolce” suono delle risate spensierate. Forse lo sono per l’autore, ma per il personaggio possiamo dire lo stesso? Tendenzialmente la risposta è sì, nel senso che qualunque persona con un’infanzia normale potrà ritenere le risate spensierate un qualcosa di piacevole da ascoltare. Per qualche personaggio, però, potrebbe non essere così: potrebbe, al contrario, associare le risa a un ricordo negativo. Non azzardiamoci, però, a sostituire “dolce” con “terribile” e aggettivi affini; proviamo, invece, a regalare al lettore un’immagine concreta, se questo può essere d’aiuto nella caratterizzazione del suo personaggio.
Per esempio:

“Dalla cucina, si sentiva il profumo di biscotti appena sfornati e il suono di risate spensierate. Le due ragazze sembravano davvero felici, come i due fratellini che passavano sotto la sua finestra quando era bambino, mentre lui, dall’altra stanza, cercava di non ascoltare le litigate dei suoi genitori, i piatti gettati a terra, i pugni sbattuti sul tavolo.”

E voilà. I vantaggi di regalare un’immagine al lettore sono principalmente tre: il primo è che non ci fate la figura dell’autore frettoloso e insicuro; il secondo è che regalerete al lettore una scena vera e vivida, che può immaginare senza difficoltà; il terzo è che avrete delineato una parte del vostro personaggio senza intromettervi nella storia.

A questo proposito, non abbiate paura che il lettore si faccia la sua idea, mentre legge la vostra storia. Lasciate che sia lui a decidere se il vostro personaggio è “bello”, “simpatico”, “scontroso” e via discorrendo; liberatevi dell’impellente bisogno di imboccarlo, di dire al posto suo com’è il tal personaggio. Se il vostro protagonista fa girare tutte le ragazze per strada, se pronuncia battute che fanno ridere anche voi o, al contrario, se vi fa innervosire con i suoi modi, il lettore sarà in grado di esprimere un giudizio senza che voi lo aiutiate.

Abbiate fiducia in lui e liberatevi delle vostre insicurezze!

Finirò questa trattazione esaminando anche gli altri due aggettivi sottolineati. Che la dimora sia umile, mi pare abbastanza ovvio: un’unica stanza per mangiare e dormire dove vive un’intera famiglia… Non la definirei una residenza per ricchi. Di conseguenza, è assai probabile che sul divano entri a malapena una persona, che due ci stiano strette strette, a contatto, e che la seduta non sia adeguata per personaggi di grossa stazza o statura.

Ovviamente, non è detto che ogni scena serva per mostrare il personaggio o il suo passato: avreste potuto benissimo parlare del profumo e delle risa senza scomodare infanzie traumatiche, passando direttamente alla scena successiva.

Ogni volta che metterete un aggettivo, quindi, fatevi questa domanda: posso liberarmene? Sto cercando di imboccare il lettore? Come posso fare per trasmettere lo stesso concetto senza intervenire con un giudizio?

Sbizzarritevi con le immagini concrete. Sia mai che le urla e i piatti rotti non vi ispirino qualcosa  😉

[Recensione] Norvegian Wood – Haruki Murakami

Prosegue la mia rubrica di recensioni, stavolta riguardante Norvegian Wood, di Haruki Murakami; un libro che, nonostante la trama talvolta lenta, mi ha presa molto.

La morte, spesso, è un’occasione per riflettere sulla vita. È proprio questo che fa Toru Watanabe, in viaggio verso Amburgo, nel momento in cui ripensa all’evento che gli ha sconvolto la vita diciassette anni prima: la morte di Kizuki, suo grande amico, e gli eventi che hanno travolto la fidanzata di lui, Naoko.

Il libro è strutturato come un lunghissimo flashback, che ripercorre le tappe fondamentali del Toru adolescente e giovane adulto: il vuoto lasciato dall’amico, l’amicizia con Naoko e le difficoltà della ragazza nel superare il lutto, la vita universitaria, la conoscenza di Midori.

Ogni tappa viene percorsa ancora una volta, filtrata dalla voce del protagonista, per giungere ad un’unica conclusione: la morte non è l’antitesi della vita, bensì un suo complemento.

Norwegian Wood è proprio questo: un inno alla vita.

Credo lo si possa riassumere così, davvero. Il romanzo non segue una trama in senso stretto, ma racconta la vita di Toru Watanabe, segnato da un terribile lutto in età adolescenziale: la morte del suo amico Kizuki. Questa morte spezzerà una serie di equilibri e certezze nella vita di Toru, e così accadrà anche alla giovane fidanzata di Kizuki, Naoko, continuamente in bilico tra l’andare avanti e rimanere ferma all’attimo in cui tutto è cambiato.

Alla fine, si tratta di scelte. Scegliere se restare legati a un passato che non tornerà e che inevitabilmente ci travolge, o se provare ad andare avanti, tendere verso la vita.

Ci sono persone che scelgono di fermarsi, di unirsi alla schiera di coloro per cui il tempo non scorrerà più, e ci sono altri che, nella titubanza e nel senso di colpa, quantomeno provano a tornare alla normalità.

È stato questo il messaggio più forte che mi ha trasmesso il libro e ci è riuscito talmente bene da far passare in secondo piano altri personaggi degni di nota. Tali personaggi sono un contorno, persone più o meno di passaggio nella vita di Toru, ma nessuno, come Naoko, è stato capace di farmi percepire il senso di cristallizzazione che porta la morte. Un ragazzo che muore a diciassette anni avrà diciassette anni per sempre, mentre la nostra vita va avanti.

Un bel tema su cui riflettere, uno di quei libri che ti costringe a fissare il vuoto qualche minuto dopo averlo finito, che ti lascia qualcosa dentro.

Oltre a questo, spendo due parole per l’edizione. Avrei piacere di dire al correttore di bozze che le virgole sono gratis, perché, davvero, alcune frasi sono state completamente distorte dalla mancanza di un’adeguata punteggiatura. Un esempio su tutti, che mi ha fatto ridere (e piangere, sigh) per mezz’ora: “Nel primo pomeriggio, finito di mangiare Kizuki (…)”. Una virgola avrebbe salvato la vita al povero Kizuki, ahimè. Ovviamente la frase corretta era: “Nel primo pomeriggio, finito di mangiare, Kizuki (…)”.

Detto ciò, ho trovato questo libro molto intenso e meritevole di lettura. Do 4/5 per il contenuto, un generoso 3/5 per l’edizione.

E voi, l’avete letto? Cosa ne pensate?

Alla prossima!

[Recensione scritta per Cerca il tuo libro – Trova la tua prossima lettura!]

[Recensione] The Dome – Stephen King

Salve a tutti!

Con questo articolo, voglio inaugurare la sezione “Recensioni” sul mio blog. Il primo libro che ho scelto di recensire è “The Dome“, di Stephen King, un mattone da oltre mille pagine che mi ha lasciata decisamente stremata.

Direttamente dal sito Mondadori, riporto di seguito la trama:

“È una tiepida mattina d’autunno a Chester’s Mill, nel Maine, una mattina come tante altre. All’improvviso, una specie di cilindro trasparente cala sulla cittadina, tranciando in due tutto quello che si trova lungo il suo perimetro: cose, animali, persone. Come se dal cielo fosse scesa la lama di una ghigliottina invisibile. Gli aerei si schiantano contro la misteriosa, impenetrabile lastra di vetro ed esplodono in mille pezzi, l’intera area – con i suoi duemila abitanti – resta intrappolata all’interno, isolata dal resto del mondo. L’ex marine Dale Barbara, soprannominato Barbie, fa parte dell’intrepido gruppo di cittadini che vuole trovare una via di scampo prima che quella cosa che hanno chiamato la Cupola faccia fare a tutti loro una morte orribile. Al suo fianco, la proprietaria del giornale locale, un paramedico, una consigliera comunale e tre ragazzi coraggiosi. Nessuno all’esterno può aiutarli, la barriera è inaccessibile. Ma un’altra separazione, altrettanto invisibile e letale, si insinua come un gas velenoso nel microcosmo che la Cupola ha isolato: quella fra gli onesti e i malvagi. Tutti loro, buoni e cattivi, dovranno fare i conti con la Cupola stessa, un incubo da cui sembra impossibile salvarsi. Ormai il tempo rimasto è poco, anzi sta proprio finendo, come l’aria…”

Una trama accattivante, non c’è che dire. Ma andiamo per ordine.

Il libro, almeno nella mia versione, supera le mille pagine e si snoda attraverso le vicende della piccola cittadina di Chester’s Mill, le cui duemila anime sono state intrappolate all’interno di una Cupola invisibile.

La Cupola fa aumentare presto l’insofferenza dei cittadini, che decidono così di cercare in Big Jim, secondo consigliere della città, un riferimento che possa guidarli fuori da questa crisi, di cui non si conosce né l’origine, né la durata.

L’idea del libro è sicuramente originale, ma il finale, che ovviamente non vi rivelerò, lascia un po’ con l’amaro in bocca, perché, dopo mille e passa pagine, ti aspetti qualcosa di eclatante, che dia un senso alle vicende che hanno accompagnato il lettore per questa lunga avventura. Invece si ha l’idea che sia stato un po’ sbrigativo, che il senso del libro fosse un altro, quello di trasmettere un messaggio che, a mio parere, poteva essere espresso con migliore efficacia tramite un racconto breve di un centinaio di pagine.

Per tutta la durata del libro, ci si aspetta uno scontro tra il bene e il male, ci si aspetta che la caratterizzazione di ogni personaggio abbia un fine all’interno della trama; e invece, in questo finale, ogni differenza viene appiattita, rendendo di fatto inutile l’aver speso centinaia e centinaia di pagine sulle vite dei cittadini.

Vorrei spendere due parole anche sull’edizione di questo libro, che reputo pessima. A parte un errore grammaticale gravissimo (“non c’è l’ha”), spesso la traduzione è fatta in modo approssimativo (ho trovato espressioni inglesi tradotte alla lettera!), la punteggiatura scarseggia in modo scandaloso e, talvolta, mancano accenti sui passati remoti e apostrofi! Insomma, capisco che il libro sia lungo, ma non credo che la casa editrice abbia problemi a reperire un paio di correttori di bozze all’altezza.

Devo dire che questa scarsa professionalità della casa editrice mi ha delusa non poco. Ahimè, è un fenomeno che riscontro sempre più frequentemente nell’ambito dell’editoria, e non solo nella narrativa. Spesso mi chiedo come sia possibile che io, una semplice ragazza non addentro al settore, sia stata in grado di notare una quantità di strafalcioni allucinante, passati invece inosservati a coloro che sono pagati per farlo.

In definitiva, tre stelle per la trama, due stelle per l’edizione assolutamente vergognosa.

Voto finale: 2,5/5.

E voi? Avete letto questo libro? Cosa ne pensate?

(Recensione tratta dal sito Cerca il tuo libro – Trova la tua prossima lettura!)

Creare dei buoni personaggi – Gli insegnamenti della revisione

Secoli e secoli fa avevo parlato di come cominciare una storia (Qui); oggi vorrei parlare di come creare dei buoni personaggi.
Sebbene tra il dire e il fare ci sia di mezzo “e il” (XD), devo dire che, almeno in linea teorica, questa revisione mi ha insegnato alcune cose, e vorrei condividerle con voi 🙂
Proprio per questo non mi sento assolutamente nella posizione di poter dare delle “lezioni” su questo argomento; prendete il tutto come mere considerazioni scaturite dalla revisione, né più né meno XD

Ed eccoci al dunque: i personaggi. Nel post che vi ho linkato, avevo parlato di come introdurre i personaggi; ora vediamo un po’ come fare per crearne di buoni.

La revisione mi ha insegnato, prima di tutto, che i personaggi devono avere un’evoluzione. Quindi, come primo consiglio, direi che è importante definire lo stato iniziale del nostro personaggio e stabilire dove lo si vuol far arrivare.
Ora, la domanda è questa: come definisco lo stato iniziale? E come faccio a far evolvere il personaggio?
Per rispondere alla prima domanda, credo che inizialmente potete attribuire al vostro personaggio una qualsiasi caratteristica. Per citare l’esempio della mia storia, il mio Alan è un uomo che ha sofferto molto per amore, per via di un evento tragico (tranquilli, niente spoiler: se tutto va bene, lo saprete già dal primo capitolo XD), e che quindi ha difficoltà a legarsi a qualcuno o a far evolvere le sue relazioni in qualcosa di profondo; oppure abbiamo Madison, una ragazza di 23 anni che, nonostante l’età, non riesce ad affermarsi come adulta a causa della famiglia.
Ecco qua le nostre due situazioni iniziali. E scommetto che, anche se non vi dico nulla, saprete già quali sono le situazioni finali 🙂

Un appunto: fate in modo che il lettore si renda subito conto di quali sono le situazioni iniziali dei vostri personaggi. Questo non significa che dovete farlo subito nel primo capitolo per tutti i personaggi, ci mancherebbe; assicuratevi solo che il lettore lo capisca al cento per cento. Io ho fatto l’errore di non palesarlo e i personaggi sembravano statici e privi di evoluzione! Fate capire subito al lettore qual è il punto di partenza, sennò come fa a seguire l’evoluzione?

Ora, la prossima domanda. L’unico modo per far evolvere un personaggio è stuzzicare la sua area di pericolo (per maggiori informazioni su ciò, vi rimando alla prima lezione di Bonifacci, che sicuramente ne sa più di me sull’argomento: Qui). Se un personaggio ha paura dell’amore, sicuramente vi aspettate di trovare delle situazioni che lo costringeranno a scendere a patti con i suoi sentimenti, come per esempio un colpo di fulmine oppure eventi che lo metteranno faccia a faccia con la storia da cui è scappato e così via. Lo stesso vale per il personaggio che non riesce ad affermarsi come adulto: è ovvio che gli succederanno cose che faranno balzare agli occhi questa sua incapacità di emergere nella società, oppure eventi che metteranno in luce il suo lato più infantile (benché odiato), scatenando così un’ovvia reazione che porterà il personaggio a liberarsi delle sue catene.

Quindi, riassumendo: stabilite il vostro punto di partenza e fate sì che il lettore lo capisca. Stabilite poi il punto finale dei vostri personaggi, la persona che vogliate che sia dopo il vostro racconto. Dopodiché, divertitevi a mettere sempre i personaggi nelle situazioni che, per loro, sono quanto di più scomodo possa esistere.

Facciamo un esempio banale (e orripilante come al solito, ormai i miei esempi li conoscete XD).

Giorgio è un codardo, un uomo che ha paura di fare tutto e che teme la morte, e a causa di questo non riesce a combinare quasi niente nella vita. Il nostro Giorgio viene inviato chiamato per una missione, insieme a un gruppo di uomini, a bordo di una nave che usa un gas, le cui esalazioni sono molto pericolose per l’uomo, ma non letali se respirate in minima parte.
Durante una cena, a cui lui non partecipa perché stanco, i suoi compagni contraggono un’infezione alimentare, e sono fortemente indeboliti; subito dopo arriva un avviso su cui è scritto che parte del gas sta fuoriuscendo a causa di una falla, e che va subito riparata, altrimenti il gas si diffonderà e, nel peggiore dei casi, farà esplodere la nave.
Giorgio è l’unico che può riparare la falla, perché i suoi compagni sono malati; ma ha una paura tremenda, ha paura di morire, di non farcela a causa delle esalazioni del gas. Ma se si rifiuta di andare, potrebbe uccidere non solo se stesso, ma anche i suoi compagni (oppure lui potrebbe salvarsi buttandosi dalla nave, lasciando gli altri in balia del loro destino). Nel migliore dei casi, invece, le esalazioni potrebbero non colpirlo, e salverebbe così tutti.

Giorgio è paralizzato dalla paura, ma noi vogliamo che lui si evolva e che superi la sua paura per la morte. Magari esiterà, comincerà a piangere, a metà percorso vorrà tornare indietro. Gli tremeranno le mani, gli batterà il cuore per ogni nuvola di gas davanti ai suoi occhi che si trova costretto a respirare.
Ma, alla fine, ripara la falla e salva se stesso e l’intero equipaggio (e la nave).
Grazie al suo atto di coraggio, Giorgio ha superato brillantemente i suoi limiti, e la sua evoluzione gli permette di affrontare tutte quelle situazioni che, prima della storia, evitava con tutto se stesso. Giorgio si è evoluto e adesso ha il coraggio di prendere in mano la propria vita, senza paura.

Se volessimo fare uno schemettino di questa mini-storia, sarebbe più o meno così:

Situazione iniziale: Giorgio ha paura della vita e della morte, paura che lo rende inetto e passivo nei confronti della vita.
Evoluzione: Giorgio è costretto a riparare la falla, trovandosi di fronte, volente o nolente, alla paura della morte che, però, supera brillantemente.
Situazione finale: Giorgio, grazie agli eventi, ha in parte superato le sue paure, e adesso non è più spettatore passivo, ma uomo che ha preso in mano la sua vita.

Purtroppo a chiacchierare sono brava, ma a mettere in pratica questi insegnamenti un po’ meno! Credo che solo dopo tanta pratica si riesca a fare proprio questo concetto. L’unica cosa che so è che, al prossimo racconto, prima di inventare dei personaggi “così” e inserirli in eventi “così”, ci penserò due volte 🙂 Ho già intenzione, prima della stesura, di fare anche un minuscolo schemettino di due righe, ma almeno saprò qualche percorso interiore vivranno i miei personaggi, visto che con Naughty Blu ho fatto un bel po’ di fatica per far quadrare i conti in questa revisione.

Bene, vi saluto 🙂 Se per caso avete altri consigli su questo argomento, lasciate pure un commento su questo post! Come ho già scritto non ha alcuna pretesa di “insegnare” qualcosa, sono solo osservazioni nate dalla revisione 🙂
A presto, e sappiate che la revisione è quasi conclusa *__* Fremo dalla voglia *__*
Alla prossima 🙂

Show don’t tell – Raccontare vs Mostrare – Atto Secondo

Come pochi di voi ricorderanno, circa un anno fa vi ho intrattenuti con mie riflessioni sullo Show don’t tell (Qui potrete rinfrescarvi la memoria). Devo dire che all’epoca mi ero fogata veramente tanto con questa tecnica, la ritenevo la via della scrittura.

È passato un anno, ho sperimentato la tecnica e ho avuto il tempo per trarre le mie conclusioni. Come qualcuno avrà notato, i primi capitoli di Naughty Blu (Riflessi e Abitudini) sono scritti con questo stile, almeno in parte. Però, almeno per quel che riguarda il mio modo di scrivere, sentivo che c’era qualcosa che mancava. I capitoli mi piacevano per lo stile, ma i personaggi non riuscivo a sentirli miei.
E ho capito che per conoscerli davvero, i miei personaggi, ho bisogno di perdermi in loro. Nei loro pensieri, nei loro dolori, anche quelli che a volte, con i soli gesti, non si riescono a esprimere.
Ritengo che sia ugualmente brutto raccontare i loro drammi, se fatto in misura massiccia. E quindi, credo di aver trovato una via di mezzo.

Cerco di mostrare, per quanto posso, le loro emozioni: se sono arrabbiati sbattono i pugni sul tavolo, se sono imbarazzati abbassano lo sguardo e così via. Ma ho capito che non riesco a limitarmi a questo. Perciò, ho cominciato a dar sfogo alle loro voci attraverso i dialoghi. Sono loro stessi che parlano agli altri personaggi dei loro disagi. È quindi un sentimento che viene espresso esplicitamente ma senza annoiare – si spera – il lettore con lunghi polpettoni di pippe mentali. Per ora ho trovato questo sistema totalmente adatto al mio stile di scrittura, e penso che, fino a quando non cambierò idea, continuerò a usarlo.

Un esempio pratico: nel nuovo capitolo di Naughty Blu, viene introdotto il personaggio di Madison, giovane pianista costretta a suonare contro la sua volontà. Per far capire al lettore quanto Madison odi quello strumento, l’ho sia detto esplicitamente (attraverso il Carnevale di Schumann, un paio di battute essenziali con i genitori e un mio raccontare), sia attraverso i dialoghi e la reazione nell’incontro con Ashton. Sentivo che avevo bisogno di entrambi i mezzi. Ho sia raccontato che mostrato.
In definitiva, per me, la via giusta sta nel mezzo 😛
E voi, che tecnica usate? 🙂

Gli eventi di una storia e come iniziare un racconto

Ultimamente, mi sto divertendo a “studiare” la scrittura e, contrariamente a quanto si possa pensare, mi vengono molte più idee (buone)! Gli esercizi di scrittura che sto facendo mi hanno portato a elaborare alcune teorie su ciò che sono gli eventi di una storia.

Dividerei questi eventi in due categorie:

  • Eventi relativi al personaggio
  • Eventi relativi alla trama

Parliamo degli eventi relativi al personaggio: questo genere di eventi sono quelli che fanno chiedere al lettore “come reagirà Tizio in questa situazione?”. Li definirei gli eventi portanti della storia, senza i quali il lettore chiuderebbe il libro dopo due minuti. Perché in realtà, al lettore non interessa leggere di storie straordinarie, ma ama seguire le vicende personali dei personaggi che ama, vuole vederli reagire di fronte a situazioni o scelte che li coinvolgono da vicino. Ovviamente non è tutto oro quello che luccica. Li definisco il segreto per un buon racconto, ma c’è un dettaglio non trascurabile: i personaggi. Se vogliamo che il lettore si ponga la fatidica domanda che vi ho illustrato prima, è necessario che i personaggi siano ben sviluppati e credibili. Per questo credo che, almeno agli inizi del racconto, si debba ricorrere agli eventi relativi alla trama.

Gli eventi relativi alla trama sono quegli eventi fini a loro stessi, quelli che fanno domandare al lettore “che cosa accadrà adesso?”. Sembra una buona domanda, ma secondo me non lo è. Perché se l’evento riguarda solo la trama, al posto del mitico eroe che salva il mondo potrebbe starci un pesce nella sua boccia d’acqua. In questo genere di eventi il lettore non va avanti per i personaggi che sono coinvolti, ma solo per leggere di qualche fatto. Per questo credo che non se ne debba abusare, proprio perché le trame, alla fin fine, sono quelle, e non è alle trame che il lettore si affeziona. Poi certo, se uno riesce a creare buoni personaggi e un’ottima trama, ha tutta la mia stima (e un po’ della mia invidia). In sostanza userei questi eventi per condurre il lettore verso qualcosa di più grande, per invogliarlo a continuare la lettura mentre costruisce le basi (descrizione dei personaggi e via dicendo).

A questo mi sono chiesta come si dovrebbe iniziare un racconto. Ovviamente sarebbe fantastico usare il primo tipo di eventi, ma se il lettore non conosce i nostri personaggi, come possiamo sfruttarli? Direi che si possono proporre due soluzioni.

La prima, adottata da molti scrittori, è il perdersi nelle descrizioni. Non lo dico con accezione negativa, anzi. Usare qualche pagina o capitolo per introdurre personaggi, magari con eventi relativi alla trama giusto per non far annoiare il lettore, per poi passare agli eventi relativi al personaggio quando si hanno solide basi. In genere sono libri che partono molto lenti ma che poi riservano grandi sorprese. Bisogna solo avere la bravura di far arrivare il nostro lettore al punto clou (mica roba da poco).

Altrimenti, si può adottare un altro sistema, un po’ più complicato: introdurre col contagocce i personaggi nei primi capitoli. Secondo me il difetto di questa tecnica è che spesso gli inizi tendono ad essere plateali, per poi risultare totalmente sconnessi con il resto della storia. E lo dico perché io stessa sono caduta nel tranello qualche anno fa! Per ovviare a tutto ciò sarebbe bene partire con una scaletta già fatta, anche solo per avere un’idea della storia. Per la verità, avrei anche pensato a un esempio per questa tecnica, sperando che non sia troppo orripilante.

Una donna scappa da un gruppo di soldati e, dopo una gran corsa, si rifugia in una chiesa.

Detto così non è una gran cosa: è un evento della trama, magari vogliamo sapere cosa accadrà, facendo affidamento a quello che ci suggerisce l’esperienza comune. Andiamo avanti.

I soldati si fermano nella navata centrale della chiesa, e si guardano intorno in cerca della donna. All’improvviso, questa esce e, senza dire una parola, si ferma davanti a loro.

Non è una gran cosa neppure questo, ma intanto l’atteggiamento della donna ci sorprende: si vorrà sacrificare? Tenterà di parlare con loro? Piano piano stiamo mostrando una piccolissima porzione del carattere della donna. Proseguiamo.

All’improvviso, dal nulla, la donna tira fuori un mitra e lo punta contro il gruppetto di soldati. Non può fare a meno di notare il Marchio Rosso: sono Eretici, senza dubbio. Sul suo volto compare un sorrisetto compiaciuto e maligno.

A quanto pare la nostra amica è un tipo spavaldo. Sarà un bluff? È un mitra giocattolo? O è una spietata assassina che tra poco sparerà a tutti? In ogni caso, abbiamo appreso che,  sia che sia un bluff che la realtà, questa donna ha il coraggio di mettere in pericolo la propria vita.

I soldati la sbeffeggiano chiedendo perché impugna una palesissima arma giocattolo. La donna, senza alcuna esitazione, dimostra con una risata malvagia che un giocattolo non è. “A morte gli Eretici! Siete la feccia dell’umanità!”.

Ma nessuno sarà in grado di raccontarlo.

Adesso abbiamo imparato che questa signorina non si fa scrupolo a sparare a una decina di persone. Cosa sappiamo ora? È spavalda, coraggiosa e spietata. Proviamo ora a inventare per lei un altro evento, che stavolta sarà proprio un evento del personaggio.

Compiaciuta per la strage fatta, la donna gironzola per la chiesa in cerca di qualche tesoro. Ma mentre si fa largo in una piccola cappella, dietro una panca scorge, rannicchiato e tremante, un bambino. Lo guarda più da vicino e inorridisce: quello è proprio il Marchio Rosso.

A questo punto, il lettore si chiederà (siamo sicuri? XD) che cosa accadrà. Ma la domanda non è tanto se il bambino morirà o meno. Il lettore si chiederà se la donna reagirà sparando oppure no. Perché un pochettino l’abbiamo inquadrata, e siamo curiosi di sapere come lei reagirà in quella data situazione. Non sarebbe stata la stessa domanda se avessimo inventato questo evento per un prete buono o un cagnolino scodinzolante.

Se invece di tutta questa tiritera avessi scritto solamente

Una donna si rifugia in una chiesa per sfuggire a dei soldati. Decide di esplorarla e si dirige verso la cappella: lì trova un bambino rannicchiato e tremante.

ci saremmo sì interrogati sul seguito, ma al posto della donna poteva starci il prete buono o il cagnolino scodinzolante. In altre parole, non era interessante. In generale, l’evento “una donna trova un bambino piagnucolante in una chiesa” non è un grande evento. Ma per noi sì. Perché? Questa è la domanda focale.

Qualcuno potrebbe contestare l’esempio dicendo che l’evento è interessante perché la donna è esageratamente fuori dagli schemi e va contro il senso comune: per questo propongo di immaginare bene o male lo stesso contesto. La donna però non è una spietata assassina; è anzi piuttosto normale, solo che odia i bambini. Supponiamo che questo aspetto emerga nel momento in cui i soldati pensano di avere in pugno la donna. Questa poi riuscirà a fuggire, si rifugia nella cappella dove troverà il solito bambino. I soldati in lontananza si avvicinano. Che fare? Scappare e lasciare il bambino al suo destino, o salvare il bambino e sacrificarsi? (comincio a pensare che questo esempio sia più calzante, mannaggia).

Bene, dopo avervi annoiato con questa lunga dissertazione ma, soprattutto, con questo esempio tremendo, vi lascio per andare alla ricerca di nuovi esercizi.

Alla prossima!

P.S. : che farà la donna? Sparerà o no? Penso che nessuno lo saprà mai…

Quinto esercizio di scrittura, eccolo qui!

È proprio vero che quando si ha l’idea giusta (o anche solo un’idea) la voglia di scrivere arriva da sé   😀 Mentre cercavo un esempio per spiegare lo scopo di questi esercizi, ecco che un nuovo incipit ha fatto capolino senza che nemmeno me ne accorgessi. E non mi sono neanche accorta di quanto la struttura si sia creata completamente da sola… Erano solo pezzi di puzzle sparpagliati che dovevo rimettere a posto! Per questo vi presento il quinto esercizio di scrittura, stavolta infarcito di amore & orgoglio XD Chi vincerà? Ai voi lettori l’ardua sentenza! Ma ecco il racconto:


“Ma ti rendi conto di cosa mi ha detto? «O mi regali un mazzo di fiori, o puoi scordartelo che torniamo insieme! ». Ma dico, ti sembra normale? Tanto per cominciare, non mi abbasserò mai a compiere quelle schifezze romantiche, ma soprattutto non mi lascio ricattare così!”

“Ah, vedo che ragioni finalmente. Per un momento ho pensato che ti saresti fatto abbindolare.”

“Non scherzare. Io, che mi faccio mettere i piedi in testa in questo modo?”

“Certo, però… Il ricatto di per sé non è una gran cosa, ma in questi due anni almeno un mazzo di fiori potevi pure regalarglielo, no?”

“Te lo ripeto, ma lo sai già, che non sono il tipo. Coccole, attenzioni, regalini. Non sopporto queste cose. E se lei spera che finalmente cederò solo per tornare con lei… Si sbaglia, e di grosso anche.”

“Be’, valuta tu le tue priorità. Rischi di perderla per sempre così. Per uno stupido mazzo di fiori… “

“Marco, basta così! Non ho mai ceduto per nessuno, e non cederò nemmeno per lei!”

“Ho capito, hai vinto… Ma dove stai andando?”

“Via, vado. Torno a casa. L’aria di questa città è soffocante!”

Valerio si alzò e lasciò cinque euro sul tavolo. Udì i vani tentativi di trattenerlo, mentre si avviava a grandi passi verso casa; piano piano la voce di Marco scomparve. Si incamminò verso la fermata dell’autobus e, come una severa legge del contrappasso, tutto ciò che vedeva intorno a lui erano coppiette felici. E non solo: si scambiavano ogni genere di romanticherie, da bacetti fugaci a sussurri d’amore a voce un po’ troppo alta.

Finalmente Valerio giunse alla fermata del bus. Non amava prenderlo nell’affollato centro: oltre ad avere un’ossessione per i borseggi, odiava in generale la folla chiassosa. Girò intorno alla palina dell’autobus in cerca degli orari che si rivelarono svaniti chissà quando, cosa che lo fece irritare ancora di più. Guardò l’ora: era tentato dal tornare a casa a piedi, ma un appuntamento importante lo aspettava a casa; era costretto a servirsi dei mezzi pubblici.

Nel tentativo di ingannare l’attesa, si guardò intorno. Dietro la fermata vi era un forno storico – stando a quanto diceva l’insegna, colmo di bambini in attesa della loro bramata schiacciata; accanto una piccola e semplice boutique. Lo sguardo di Valerio si spostò dall’altro lato della strada, quando qualcosa catturò la sua attenzione: l’autobus stava arrivando! Ma prima che il veicolo gli coprisse completamente la visuale sul marciapiede opposto, il suo sguardo si posò su qualcos’altro.

Un fioraio.

Dall’altra parte della strada, oltre l’autobus. Oltre il suo orgoglio.

Le porte erano aperte davanti a lui.

“Allora che fa, sale?”

Lo sguardo di Valerio scorse velocemente dall’autobus al fioraio, dal fioraio all’autobus.

Non sapeva più chi guardare.


Fine ^^ In realtà, dopo un’attenta analisi, ho ritenuto più interessante la scelta di andare dal fioraio, per il fatto che una così è da prendere a schiaffi… E veder cedere un tipo come Valerio per una così fa salire talmente il nervoso che ti viene voglia di sapere se lui si ravvederà e la mollerà con stile XD Ah, potrebbe essere una storia interessante, anche solo per riprendere un po’ l’abitudine a scrivere cose “lunghe”… Be’, al prossimo esercizio allora! Anche se non so bene quanti farne… Sarei tentata da 7, ma una vocina dentro di me dice “Smetterai quando avrai padroneggiato la tecnica!” XD La voce della saggezza?

Chi lo sa XD Intanto vi saluto, alla prossimaaaaaaa

Quarto esercizio di scrittura partorito!

Finalmente, dopo qualche tempo, sono riuscita a dare alla luce il quarto esercizio. Devo dire che il telefilm Chuck mi ha ispirato, anche se il nome Sara è indipendente dal telefilm XD In tutta sincerità, avevo scritto un altro esercizio, però alla fine mi sono accorta che non rispettava molto i canoni richiesti (in altre parole, non era troppo interessante), e quindi credo che lo terrò privatamente nel mio hard disk XD

Parlando dell’esercizio che vi propongo oggi, devo dire che l’ho scritto un po’ di getto, senza pensare troppo alle direttive dell’esercizio (ultimamente mi succede spesso, sarà un segno buono o cattivo?), però alla fine del racconto mi sono posta diverse domande, per cui penso che sia abbastanza riuscito ^^ Ma bando alle ciance, ecco il testo:

(ps. ho notato che cliccando su Continua a leggere, vi reindirizza sì alla storia, ma salta un rigo… per cui appena cliccate scorrete un po’ la rotellina del mouse  XD)


« Non riesco a credere che siamo ancora vivi! »

« Già. Quel maledetto… ci ha traditi! Sperava di farci saltare in aria, e invece… »

« E invece è solo merito tuo se siamo ancora qui, Kevin. Sei arrivato proprio al momento giusto, sarebbe bastato solo un secondo in più… »

« Per fortuna ho avvertito subito il pericolo. Adesso, però, dobbiamo fuggire. Sono sicuro che Marshall informava costantemente i suoi per rivelargli la nostra posizione. Sanno già dove siamo, dobbiamo scappare, e in fretta! »

Continua a leggere “Quarto esercizio di scrittura partorito!”

Terzo esercizio di scrittura (wow!)

Presa da un raptus creativo, ho incredibilmente steso il terzo esercizio di scrittura! E vi dirò di più, è una sorta di “seguito” del precedente. Ero un po’ titubante all’idea, perché avevo paura di non riuscire a rispettare le direttive dell’esercizio. E invece credo che sia venuto benino. Ma vabbè, bando alle ciance, eccovi il terzo esercizio!


Erano ormai due giorni che si trovavano in quella foresta. Ma Legis non era affatto tranquillo. Era stato “finalmente” convocato da un sottoufficiale del Comandante Magister, e sapeva bene che cosa lo aspettava. E infatti, dopo pochi minuti, il sottoufficiale tornò, conducendolo nella ampia e confortevole tenda del Comandante.

« Si sieda, Tenente Legis. »

Il Comandante indicò una poltrona davanti a lui, e Legis accolse il suo consiglio. Tentò di non tradire alcuna emozione, ma sentiva il cuore a un passo dall’uscirgli dal petto e le gambe molli. Il Comandante lo fissò per alcuni istanti, in silenzio, dopodiché estrasse un foglio. Legis dette una rapida occhiata: sembrava un dossier.

« Questa » disse il Comandante indicando il foglio « è la persona che stiamo cercando. Alcuni sostengono che sia una bambina, altri un’adolescente. » Il Comandante buttò la schiena indietro sulla poltrona. « Ma questo non ci interessa. Tenente Legis » e a questo richiamo Legis si drizzò « le affido il compito di trovarla. »

La mente di Legis viaggiò alla velocità della luce. Pensò subito che trovarla era la parte meno difficile; l’avrebbe consegnata, e avrebbe trovato poi un modo per farla scappare.

« E… » proseguì il Comandante,  destando Legis dai suoi pensieri. « di ucciderla. »

Legis rimase ammutolito. Il Comandante gli aveva appena ordinato di uccidere la ragazza che occorreva per il grande Progetto? Era forse impazzito?

Il Comandante rise.

« Caro, caro Legis. Non devono interessarti i dettagli. Devi ucciderla. Non mi interessa come e quando, devi solo farlo. E come prova » disse il Comandante, avvicinandosi alla scrivania « voglio la sua testa. E se non avrò la sua, avrò la tua. »

Il Comandante si rimise comodo, dopodiché si accese un sigaro.

Legis annuì, si congedò e uscì nuovamente nella foresta. Si portò in disparte dai suoi compagni; voleva pensare da solo. La sua mente ricominciò a perdersi in un groviglio: ovviamente non se la sentiva di commettere un omicidio, ma disubbidire all’ordine avrebbe significato la sua morte; e dato che lui era l’unico a conoscenza del progetto e in grado, anche solo in minima parte, di fermarlo, non poteva permettersi di morire. Certo, avrebbe potuto trovare la ragazza e vagabondare con lei; in qualche modo avrebbe eluso la strettissima sorveglianza del Commando, che si trovava in ogni dove.

Sì, avrebbe fatto così. Ricordava bene le parole della lettera  – “Ricordandole che da ora in poi fa parte del Progetto e che dunque ogni tentativo di sommossa, ribellione, ammutinamento o divulgazione saranno punite con la massima pena…” – ma non ebbe dubbi. Doveva solo partire alla ricerca della ragazza. E non c’era tempo da perdere: si incamminò verso la sua tenda pensando alle cose da portar via.

« Ehi, salva-vecchiette! Dove vai tutto di corsa? »

La voce alla sue spalle – che riconobbe essere, purtroppo, di Joe – lo costrinse a fermarsi.

« Che vuoi, Joe? »

L’uomo si avvicinò, e gli fece un sorrisetto.

« Quanto astio, caro Tenente. E invece mi sa che da oggi in poi dovrai trattarmi meglio, se non vuoi farti venire troppa bile. »

Legis aggrottò le sopracciglia.

« Già, caro Tenente. Il Comandante mi ha dato ordine di partire con te. Vedo che stai facendo i salti di gioia. Io invece, caro Tenente, sono proprio contento. Almeno vedo di tenerti d’occhio. Tu non mi convinci, e lo sai. E adesso muoviti e vai a fare le valigie! »

« Non permetterti di darmi ordini! »

Joe si avvicinò ancora di più.

« E invece mi permetto. Cosa farai sennò, rapporto al Comandante? »

Legis fece per ribattere, ma si trattenne. Sarebbe veramente dovuto partire con Joe? Si avviò verso la sua tenda: non voleva sentire altro da lui.

E ora, cosa ne sarebbe stato del suo piano, con quel mastino alle calcagna?